L’acqua in cui ci immergiamo, sia mare o piscina, sarà di solito fresca, se non addirittura fredda. Anche l’acqua a 30°C, comparata con la nostra temperatura corporea -di circa 36°C- risulterà comunque fresca; tanto più in mare, anche se siamo coperti da una buona muta.
La vasocostrizione periferica
La prima cosa che il nostro organismo farà all’atto dell’immersione, sarà di cercare di ridurre al minimo la dispersione di calore. Ciò è possibile grazie ad una vasocostrizione delle zone periferiche che, riducendo il diametro dei vasi sanguigni vicini alla superficie del corpo, riduce di conseguenza il volume di sangue che vi scorre dentro. Così facendo, viene limitato il raffreddamento del sangue stesso e di tutto l’organismo.
Bradicardia riflessa
Altro fenomeno importante è la bradicardia riflessa, ovvero l’abbassamento del battito cardiaco, dovuta alla semplice immersione in acqua. Ciò avviene, prevalentemente, a causa del contatto dell’acqua fredda col viso fa sì che il battito cardiaco si abbassi in modo sensibile. Questo accade anche immergendo solo la faccia in acqua fresca, e per questo tale fenomeno è noto anche col nome di “riflesso del lavandino”.
Infine si aggiunge il fatto che, quando siamo immersi in acqua, siamo apparentemente privi di peso; perciò il cuore dovrà faticare meno per spingere il sangue in circolo.
L’apparato respiratorio
L’uomo in media ha una capacità polmonare di 6 litri: 5 litri di capacità vitale (quella misurata con la spirometria) ed 1 litro di volume residuo e di spazio morto bronco-tracheale. Tale uomo avrà quindi, dopo un’inspirazione massima, 5+1=6 litri d’aria all’interno del suo corpo.
Il volume minimo d’aria che tale uomo può avere al suo interno è di 1 litro; ciò si verifica quando egli si trova in condizioni di espirazione massima. Questo litro d’aria residuo non potrà mai uscire dal suo corpo, dato che la gabbia toracica più di quel tanto non si può comprimere e che il diaframma si trova già in posizione totalmente alzata.
“…après il s’écrasse….” “…dopo si rompe….”
I medici ed i fisiologi, fino a non molti anni fa, tramite un semplice ragionamento, affermavano che immergersi oltre i 50 metri in apnea voleva dire andare incontro alla morte. L’uomo-tipo fa un’inspirazione massima e si trova con 6 litri d’aria al suo interno. Poi inizia a scendere. La legge di Boyle, afferma: “A temperatura costante il volume di una data quantità di gas è inversamente proporzionale alla sua pressione”. Perciò, quando il nostro uomo-tipo arriva a -10 metri (pressione assoluta = 2 atmosfere), il volume d’aria al suo interno sarà dimezzato: 3 litri. Proseguendo, quando arriva a -20 metri (3 ata) il volume d’aria sarà 2 litri. E così via. Ma quando egli arriva a -50 metri? A -50 metri la pressione è 6 ata ed il volume è, ovviamente, un sesto di quello iniziale: 1 litro!
L’uomo-tipo si trova, praticamente, in condizioni simili a quelle di espirazione massima: la gabbia toracica non si può più comprimere, perché è elastica solo fino a quel punto, ed il diaframma è già alzato al massimo. Non è più possibile una ulteriore diminuzione di volume dell’aria nei polmoni.
Se si prosegue nella discesa, la pressione dell’acqua, non più equilibrata dalla riduzione di volume polmonare, schiaccerà l’uomo-tipo.
Il medico francese Cabarrou, uno dei massimi esperti dell’epoca, rispondeva così a chi gli chiedeva se l’uomo potesse superare i 50 metri in apnea: “…après il s’écrasse….”, cioè: “…dopo si rompe….”.
Quando Enzo Majorca staccò il cartellino a -51 metri, tutto il mondo scientifico capì che in questo ragionamento c’era qualcosa che non tornava. O meglio, c’era qualcosa che ancora non si sapeva.